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Anche Cenerentola vola al sabba delle befane

Anche Cenerentola vola al sabba delle befane

La principessa sconosciuta e la sua fuga a mezzanotte, i roghi delle streghe, la zucca magica di Seneca: il volto rimosso di una festa femminile

di TONINO ARMATA

«Certe scellerate», si legge nei manuali ecclesiastici del Medioevo, «sostengono di cavalcare la notte insieme a Diana, dea dei pagani, e a una gran moltitudine di donne; di percorrere grandi distanze nel silenzio della notte profonda; di obbedire agli ordini della dea come se fosse la loro signora».

Una misteriosa signora, che nei documenti processuali è detta anche “Madona Horiente”. Sono i residui della “religione dianica”, il culto precristiano di fertilità e guarigione, che gli studiosi hanno riconosciuto nelle descrizioni popolari del sabba.

Cos’ha a che fare il sabba, quel volo notturno di donne nel cielo stellato per siderali distanze dello spaziotempo che ancora oggi i residui del folklore popolare celebrano nella notte della cosiddetta Befana, con la venerazione di Diana, Artemide, Ecate? Che cosa hanno in comune con la Dea Bianca, la grande divinità femminile che pervadeva la devozione degli antichi? Con quella bona dea o bona domina (“buona signora”), il cui nome ancora risuona nelle risposte agli interrogatori quattrocenteschi delle contadine.

Fin dall’alto Medioevo la donna era levatrice, medico, chirurgo, aveva tramandato di madre in figlia il lascito “magico” dell’antica sapienza che era stata di Medea e di Elena di Troia.

All’inizio dell’età moderna due domenicani, Heinrich Institor Kramer e Jacob Sprenger, scrissero il Malleus Maleficarum, il “Martello delle streghe”, il più celebre e consultato tra i manuali degli inquisitori, in cui si spiegavano i malefici operati dalle streghe, i mezzi per riconoscerli, i sistemi per interrogarle e tutte le crudeli torture per estorcere loro confessioni quasi sempre false. In Europa, tra il XV e il XVII secolo, decine di migliaia di donne furono messe al rogo. In passato del resto la chiesa si era domandata se «questo individuo bizzarro» che è la donna, «così diverso dall’uomo come lo è la scimmia della foresta, potesse aspirare al titolo di creatura umana, e se potesse ragionevolmente accordarsi con lui», come ricorda alla fine del Settecento il marchese de Sade in Justine, ironicamente alludendo al secondo concilio di Mâcon e alle sue dispute sulla liceità a considerare la donna homo, ossia appartenente alla specie umana e in quanto tale dotata di anima.

Quanto più grande il potere femminile è stato percepito, nei millenni, tanto più è stato ridotto e represso. È attraverso il mito che la grandezza di questo potere, e il timore che ha suscitato e suscita, può superare le rimozioni e manifestare, insieme alle paure, la sua verità.

Come in quello di Medea, la strega per eccellenza della mitologia classica, o di Elena, che con il suo nepente addormentava il cuore degli uomini come gli sciamani siberiani con l’Amanita Muscaria, così in quell’altra storia di magia e stregoneria che è la fiaba di Cenerentola, tessuta di un’abbacinante varietà di materiali mitici provenienti dall’antichità greca ed egizia oltreché dall’estremo oriente, diffusa dalla Cina alla Scozia, dai Balcani all’Asia Centrale, dall’India all’America Latina, nelle cui versioni la studiò Claude Lévi-Strauss, che vide nel mito della “creatura di cenere” una figura di riconciliazione della vita e della morte, del cielo e della terra.

Il monosandalismo di Cenerentola è il contrassegno di chi si è recato nel regno dei morti (la reggia del principe) e quella stessa marginalità femminile che sottostà alle accuse di stregoneria «oltre a essere sinonimo di debolezza riflette in maniera più o meno oscura la percezione di una contiguità tra chi genera la vita e il mondo informe dei morti e dei non nati». Cos’è del resto il sabba se non quell’«esperienza inaccessibile che l’umanità ha espresso simbolicamente per millenni attraverso miti, favole, riti, estasi», e che «rimane uno dei centri nascosti della nostra cultura, del nostro modo di stare al mondo», perché «anche il tentativo di conoscere il passato è un viaggio nel mondo dei morti»? In uno dei suoi saggi, Il motivo della scelta degli scrigni, sulla scelta della donna nella letteratura e nel mito e il suo trascolorare da madre a sposa, a terra che accoglierà l’uomo al suo morire, Sigmund Freud riconobbe in Cenerentola, come in Cordelia, un’incarnazione di quella grande e onnipresente dea, che identificava con Afrodite nella sua versione funeraria, basandosi sull’intuizione di un grande filologo, Hermann Usener.

Quest’ultimo aveva messo in relazione il giudizio di Paride con quello cui si sottopone Cenerentola partecipando al bando nuziale del principe, dal cui palazzo dovrà fuggire allo scoccare della mezzanotte, per indicazione della fata madrina, in un gioco di metamorfosi, proprio come accade nel sabba.

Forse né Usener né Freud conoscevano l’usanza bizantina che è al fondo delle principali versioni di questa fiaba di magia arrivata all’Italia barocca con Basile, alla corte del Re Sole con Perrault, poi alla Germania romantica coi fratelli Grimm. Il cerimoniale che presiedeva alla scelta della sposa dell’imperatore di Bisanzio prevedeva l’emanazione di un bando in tutto l’impero per indire il “concorso di bontà e bellezza” che avrebbe portato nel palazzo imperiale giovani candidate di ogni estrazione, ma che implicava anche l’esibizione, da parte dei messi, di una babbuccia purpurea, simbolo del potere bizantino.

Nel congegno di enigmi e specchi, di realtà e immaginazione, che sempre governa la trasmissione del mito, il simbolo imperiale bizantino diventa strumento di castrazione: se il piede è notoriamente un simbolo fallico e nel feticismo del piede l’uomo adora il fallo femminile, questo dev’essere compresso, ridotto, come del resto nell’antica versione cinese della fiaba. Cenerentola, come Medea, viene disinnescata. Ma si conferma strega nel rituale di metamorfosi che la porta alla fuga al rintoccare della mezzanotte, allo scoccare del sabba, quando torna ad essere, come Apollo, signora dei topi, e quando il suo cocchio si trasforma, secondo gli antichi rituali magici grecoromani riflessi nella beffarda metamorfosi che Seneca inventò per il divo Claudio, in una zucca.

L’antica Casteldurante (Urbania), cittadina nel Nord delle Marche a due passi da Urbino è il luogo ideale per la Befana. Le colline appena fuori dal paese, tranquillo e genuino, sono per lei un rifugio dove riposare dopo le piacevoli fatiche che la sua festa le procura. Urbania, cittadina famosa per le sue maioliche e i prestigiosi monumenti, è stata sede preferita dei duchi Federico da Montefeltro e Maria Francesco II della Rovere (dal 1400 al 1600).

A Casteldurante, la locale Pro Loco ha brevettato l’immagine della Befana ed un marchio che rappresenta l’intera manifestazione. Gli scopi di questa iniziativa sono molteplici. Il più importante è, senz’altro, la riscoperta dell’aspetto pedagogico legato alla Befana. Altro scopo è quello di riproporre l’aspetto puramente folcloristico e tradizionale di questo personaggio dell’immaginario infantile.

Nel ricordo di antiche usanze che vedevano la Befana al centro di feste popolari, fortemente radicate tra gli abitanti di questo angolo delle Marche, tanto da oscurare quelle in gran parte consumistiche abbinate a “Babbo Natale”, Urbania si candida come il luogo più originale e adatto per ospitare la “La Casa della Befana”. Qui, per tutto l’anno i bambini potranno mandare le loro lettere, con i loro desideri e piccoli problemi: sarà proprio la cara Vecchietta a rispondere ad ognuno.

La Befana, (termine che è corruzione di Epifania, cioè manifestazione) è nell’immaginario collettivo un mitico personaggio con l’aspetto da vecchia che porta doni ai bambini buoni la notte tra il 5 e il 6 gennaio.

La sua origine si perde nella notte dei tempi, discende da tradizioni magiche precristiane e, nella cultura popolare, si fonde con elementi folcloristici e cristiani: la Befana porta i doni in ricordo di quelli offerti a Gesù Bambino dai Magi. L’iconografia è fissa: un gonnellone scuro ed ampio, un grembiule con le tasche, uno scialle, un fazzoletto o un cappellaccio in testa, un paio di ciabatte consunte, il tutto vivacizzato da numerose toppe colorate. Si rifà al suo aspetto la filastrocca (la Befanata) che viene recitata in suo onore:

La befana vien di notte / con le scarpe tutte rotte / col vestito alla romana / viva viva la Befana!

Nella notte tra il 5 e il 6 gennaio, a cavalcioni di una scopa, sotto il peso di un sacco stracolmo di giocattoli, cioccolatini e caramelle (sul cui fondo non manca mai anche una buona dose di cenere e carbone), passa sopra i tetti e calandosi dai camini riempie le calze lasciate appese dai bambini.
Questi, da parte loro, preparano per la buona vecchia, in un piatto, un mandarino o un’arancia e un bicchiere di vino. Il mattino successivo insieme ai regali troveranno il pasto consumato e l’impronta della mano della Befana sulla cenere sparsa nel piatto. Nella società contadina e preindustriale, salvo rari casi, i doni consistevano in caramelle, dolcetti, noci e mandarini, insieme a dosi più o meno consistenti (a insindacabile giudizio della Befana) di cenere e carbone, come punizione delle inevitabili marachelle dell’anno.

La Befana, tradizione tipicamente italiana, non ancora soppiantata dalla figura “straniera” di Babbo Natale, rappresentava anche l’occasione per integrare il magro bilancio familiare di molti che, indossati i panni della Vecchia, quella notte tra il 5 il 6 gennaio, passavano di casa in casa ricevendo doni, per lo più in natura, in cambio di un augurio e di un sorriso. Oggi, se si indossano gli abiti della Befana, lo si fa per impossessarsi nuovamente del suo ruolo. La sua figura è dispensatrice di regali e di piccole ramanzine per gli inevitabili capricci di tutti.

Dopo un periodo in cui era stata relegata nel dimenticatoio, ora la Befana sta vivendo una seconda giovinezza, legata alla riscoperta e alla valorizzazione delle antiche radici e della più autentica identità culturale.

L’epifania ha radici lontanissime nel tempo e i rituali a essa legati non hanno mai perso importanza, è per questo che, da ben 30 anni, la Pro Loco Casteldurante organizza manifestazioni dedicate a questa bella tradizione, molto sentita sia dai bambini sia dagli adulti, i quali ritrovano in essa il sapore del loro passato.

Nonostante l’importanza che ha sempre avuto nella nostra area, la festa della Befana di Urbania è salita alla ribalta della cronaca nazionale solo nel 1997, anno in cui i giornali e le televisioni hanno dato ampio spazio all’evento.

La città viene coinvolta totalmente per preparare questa festa, una delle poche dedicate ai bambini.  Centinaia di calze appese alle finestre, innumerevoli Befane che animano il centro, vetrine allestite per l’occasione, menù della Befana, mercatini, musica, tutto contribuisce a trasformare Urbania nella città della Befana, allegra, gioiosa e ospitale. La festa è arricchita ogni anno da manifestazioni collaterali, per migliorarne la spettacolarità ed accogliere nel miglior modo possibile i visitatori che affluiscono numerosissimi da ogni parte d’Italia, offrendo così una giornata di sana e festosa allegria a grandi e piccoli.

 

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