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La strage di Fragheto e gli eccidi nazifascisti

La strage di Fragheto e gli eccidi nazifascisti

La strage di Fragheto e gli eccidi nazifascisti

Ogni storia ha il suo incipit e anche quella delle stragi nazifasciste ne ha uno: l’incipit si chiama Boves, un paese in provincia di Cuneo. Qui, il 19 settembre 1943, avvenne un massacro della popolazione civile che rappresentò l’ “archetipo” dei futuri “bagni di sangue”: 350 case incendiate e 23 civili uccisi per rappresaglia dopo l’uccisione di un soldato tedesco nello scontro a fuoco con una delle prime formazioni partigiane costituita da militari della “Guardia di frontiera”. A nulla servì la restituzione di due soldati tedeschi presi in ostaggio, condizione imposta dal maggiore delle SS Peiper per evitare la rappresaglia contro gli abitanti. E’ l’inizio di una lunga scia di sangue che attraverserà il Paese da sud a nord dopo l’occupazione tedesca di Roma e la dichiarazione di guerra del governo Badoglio alla Germania il 13 ottobre 1943.

I primi di gennaio del 1944 il fronte militare si spostava a Montecassino e sulla Linea Gustav che dalla foce del Garigliano, sul versante tirrenico, raggiungeva l’Adriatico nei pressi di Ortona. E’ in questa area centro-meridionale del Paese che tra febbraio e maggio del 1944 si verificano le stragi di civili tra le più efferate. Tragedie che coinvolgono intere comunità: dopo Matera e Barletta è la volta di Conca della Campania, Vallerotonda, Pietransieri, Capistrello, Leonessa per spostarsi verso il centro-nord a La Storta, Gubbio, Camerino, Fucecchio, Fivizzano, Marzabotto, Monte Sole e S. Anna di Stazzema fino ad investire, tra l’estate del 1944 e la primavera del 1945, Veneto, Friuli, Alto Adige, Liguria e Piemonte. Uno stillicidio che si concentra con maggiore intensità in Toscana e in Emilia le cui zone appenniniche erano attraversate dalle fortificazioni della Linea Gotica che da Massa Marittima piegava a sud-est fino a Pesaro.

Ma come si è arrivati a conoscere l’entità delle stragi e in gran parte individuarne i colpevoli? Certo esistevano le testimonianze dei superstiti, ma inutili erano stati i tentativi di rintracciare e punire i colpevoli. Ma dopo cinquant’anni, nel 1995, si scoprì in uno sgabuzzino al pianterreno di Palazzo Cesi, l’“armadio della vergogna” che conteneva  695 fascicoli di inchieste contenenti materiale probatorio raccolto anche dagli Alleati della Commissione delle Nazioni Unite per i Crimini di Guerra (UNWCC). L’armadio custodiva inoltre un “registro degli orrori”, con l’indicazione di migliaia di imputati. Tutto sarà insabbiato definitivamente dalla Procura militare generale di Roma nel 1960 con il provvedimento di “archiviazione provvisoria” che nel 1999 il Consiglio della magistratura militare (Cmm), definì un “istituto sconosciuto in ogni angolo del mondo e creato per l’occasione, come alibi assurdo e fragilissimo”. Il Consiglio della magistratura militare accusava il potere politico di aver imposto il silenzio. Si concludeva così una lunga marcia verso l’insabbiamento che era già iniziata nella seconda metà degli anni quaranta. Quella documentazione conteneva notizie su eccidi, omicidi, saccheggi e delitti commessi in Italia durante l’occupazione tedesca. E non solo relative agli episodi più tragicamente noti – Cefalonia, le Fosse Ardeatine, Marzabotto – ma anche a episodi mai portati a conoscenza dell’opinione pubblica. Le ragioni sono note: occorreva mantenere buoni rapporti con la neonata Repubblica federale tedesca e inoltre sarebbe diventato più difficile non estradare i criminali di guerra italiani richiesti da Etiopia, Albania, Grecia, Francia, Unione Sovietica e soprattutto Jugoslavia, che secondo l’elenco delle Nazioni Unite erano poco meno di 1.700 tra i quali un centinaio accusati di reati gravissimi. L’opportunità politica, dunque, consigliò di non perseguire i criminali tedeschi. E, infine, la questione delle commesse militari: la Germania occidentale andava riarmata come scudo per fronteggiare l’Unione Sovietica nel quadro della “guerra fredda”, ma come si sarebbe potuto giustificare il suo riarmo se fossero diventati di dominio pubblico i crimini commessi dai militari tedeschi pochi anni prima? E le commesse militari contribuivano a rilanciare  la nostra produzioone industriale.

Ma ad attirare l’attenzione dell’opinione pubblica sulle stragi dimenticate, sono stati, tra il 1996 e il 1997, anche i due processi a Erich Priebke per l’eccidio delle Fosse Ardeatine. Le indagini su Priebke avviate nel 1994 portarono alla scoperta, per la decisa iniziativa del procuratore generale militare Antonino Intelisano e la caparbietà del giornalista dell’“Espresso” Franco Giustolisi, dei fascicoli che lo riguardavano e la confessione, resa da Priebke alle autorità alleate nel campo di prigionia di Afragola, in cui ammetteva la sua partecipazione alla strage. Assieme ai fascicoli su Priebke pervennero in seguito alla Procura generale militare di Roma tutti i fascicoli dell’“armadio della vergogna”. Ci vorranno quasi due anni per attuare lo smistamento completo dei fascicoli alle altre Procure militari competenti. Il carico maggiore arriva a La Spezia competente anche per la Toscana e l’Emilia, parte della Liguria e delle Marche

Vennero riprese, dopo cinquant’anni, le indagini e si iniziò a celebrare i processi dove sfilarono a decine i testimoni diretti di quegli orrori e i sopravvissuti. Gli imputati erano ufficiali e sottufficiali delle forze armate tedesche e della GNR tra i quali i responsabili delle stragi di Marzabotto, Sant’Anna di Stazzema, Fivizzano, Civitella in Val di Chiana. La pressione dell’opinione pubblica aumenta, Giustolisi, la rivista “Micromega” e l’“Espresso” sono in prima linea e nel 2000 venne costituito il “Comitato per la verità e la giustizia sulle stragi nazifasciste” che ottenne dal Parlamento nel maggio 2003 l’istituzione di una Commissione d’inchiesta. La Commissione aveva il compito di indagare sulle anomale “archiviazioni provvisorie” e sull’occultamento dei 695 fascicoli ritrovati nel 1994 a Palazzo Cesi. Non fu semplice superare il fuoco di sbarramento del centro-destra che allora governava il Paese per non istituire la Commissione e poi ostacolarne in tutti i modi i lavori. Il presidente del Consiglio allora era Berlusconi, che per assecondare una vergognosa campagna revisionistica contro la Resistenza e l’antifascismo alimentata dal Sangue dei vinti di Giampaolo Pansa, arrivò a definire i confinati antifascisti tutto sommato come dei “villeggianti”, mentre la stampa conservatrice esaltava senza alcun senso critico storiografico il Sangue dei vinti tacendo sul sangue delle migliaia di vittime dei massacri perpetrati da nazisti e repubblichini. La Commissione ultimò i lavori nell’ottobre del 2006. I documenti inviati dai tribunali erano stati catalogati e studiati, le audizioni furono numerose ma alla fine le relazioni saranno due. Una di maggioranza che non attribuiva a una precisa volontà politica l’affossamento delle inchieste e una di minoranza, firmata dal deputato dei Democratici di sinistra Carlo Carli, che sosteneva esattamente il contrario. Ora nel sito dell’Archivio storico della Camera dei Deputati dal 17 febbraio sono online le 13 mila pagine dei documenti della Commissione e dei 695 fascicoli ritrovati nell’ “armadio della vergogna”.

Nel frattempo i processi andavano avanti sebbene 214 dei 695 fascicoli fossero andati per competenza alla Procura militare di La Spezia, una Procura sotto organico che tuttavia si è distinta per efficienza sotto la guida del magistrato Marco De Paolis oggi a capo della Procura militare di Roma. In quindici anni sono stati celebrati i processi per le stragi e comminate 57 sentenze di ergastolo. Tuttavia gli ultimi nazisti stanno morendo come hanno vissuto, liberi e impuniti. In una recente intervista al procuratore De Paolis del 17 marzo a “Il Fatto Quotidiano”, emerge che “nessuno dei nazisti condannati ha mai scontato un solo giorno e sono morti di vecchiaia, tranne otto, ancora in vita, che la Germania si tiene stretti. Delle tre cose che la giustizia tedesca avrebbe potuto fare: estradarli in Italia per farli arrestare, fargli scontare la pena in Germania o processarli per proprio conto non ne ha fatta neanche una. I primi mandati d’arresto europei li feci per Sant’Anna nel 2008, 9 anni fa. Non è successo niente. Abbiamo fatto tardi. Ma già nel 1994 eravamo fuori tempo massimo”. Parole dure, nei confronti di una Germania che invece, mi è capitato di leggere di recente, avrebbe richiesto l’estradizione di un italiano per il furto di una bottiglia di birra!

Anche la storiografia dalla prima metà degli anni novanta si muove procedendo a una rilettura delle stragi più dettagliata a iniziare dal piano locale. Nell’arco di un ventennio, con l’apporto anche di materiale documentario proveniente dagli archivi inglesi e americani, la conoscenza delle stragi si è arricchita di preziosi contributi e di una metodologia che ha prodotto la nuova categoria storiografica della “guerra ai civili”.

Non si può fare a meno di citare, fra gli altri, i contributi di Michele Battini (Peccati di memoria. La mancata Norimberga italiana, Laterza 2003), Paolo Pezzino (Guerra ai civili. Occupazione tedesca e politica del massacro: Toscana 1944, Marsilio 1997), Mimmo Franzinelli (Le stragi nascoste, Mondadori 2002), Giovanni Contini (La memoria divisa, Rizzoli 1997), Carlo Gentile (I crimini di guerra tedeschi in Italia.1943-45, Einaudi 2015). Vanno ricordati anche gli importanti contributi degli storici tedeschi Lutz Klinkhammer (L’occupazione tedesca in Italia, 1943-1945, Bollati Boringhieri, 1993) e Gerhard Schreiber, (La vendetta tedesca. 1943-1945: la rappresaglie naziste in Italia, Mondadori 1996). Tutti questi studi hanno usato in misura diversa anche fonti orali e scritture private a integrazione di una lettura esclusivamente documentale e storico-politica.

Detto questo le stragi nazifasciste pongono diversi problemi. In questa sede posso accennare solo ai più importanti affrontati dagli studiosi: la quantificazione delle stragi, il problema della violenza e della rappresaglia che in diversi casi, come a Fragheto, ha provocato una memoria divisa per le accuse di coloro che addossavano la responsabilità delle stragi alla presenza in quelle zone della guerriglia partigiana.

Ma prima occorre delineare le modalità di nazisti e collaborazionisti repubblichini per contrastare la guerriglia partigiana. Inizialmente si attivarono il controspionaggio, funzionari di polizia e la polizia segreta militare, ma dalla primavera del 1944, con l’inizio dell’offensiva alleata contro la Linea Gustav, aumentarono di intensità le azioni partigiane contro le retrovie tedesche. L’intensificarsi dell’efficacia della guerriglia, ingrossata dai renitenti alla leva della RSI, richiese quindi l’intervento diretto della Wehrmacht e si passò da limitate azioni di rastrellamento a veri e propri scontri armati. In un crescendo di violenza il 17 giugno 1944 il feldmaresciallo Kesserling emanò un “Nuovo regolamento per la lotta alle bande partigiane”  che di fatto fornì la copertura a qualsiasi misura adottata  dalla truppa invitandola, con l’esplicita “clausola dell’impunità”, come dimostrato da Klinkhammer e Schreiber, a compiere massacri.

Alla fine di giugno il gen. von Zengen diramò a sua volta disposizioni che applicavano gli ordini di Kesserling con la conseguenza che per la prima volta gli abitanti dei borghi appenninici furono ritenuti responsabili delle azioni dei partigiani. L’ordine di von Zengen, citato testualmente nei loro studi dagli stessi storici tedeschi Klinkhammer e Schreiber era chiaro: “Là dove  compaiono bande di notevoli proporzioni, bisogna ogni volta arrestare una determinata percentuale della popolazione maschile della zona e, qualora si verificassero violenze, fucilarla. Bisogna farlo sapere agli abitanti. Se in qualche località si sparerà sui soldati (…) la località stessa dovrà essere incendiata. Esecutori o caporioni saranno impiccati in pubblico”.

E’ evidente che con questi ordini si stabiliva che l’appartenenza al partigianato non era più stabilita su base militare, come il possesso di armi o trovarsi in accampamenti mobili, ma era sufficiente il minimo sospetto di avere dato alloggio e viveri ai partigiani o trasmesso loro informazioni, per mettere la popolazione civile sullo stesso piano dei combattenti. L’ordine dato alle unità speciali era chiaro: “Dovrà essere immediatamente fucilato chi dà appoggio alle perfide e criminali bande”.

L’adozione della rappresaglia contro la popolazione civile diventa quindi un consapevole strumento di lotta. L’obiettivo era di far comprendere alla popolazione quali conseguenze avrebbe avuto per i civili un qualsiasi appoggio o una sospetta simpatia per i ribelli. La popolazione doveva considerare causa delle rappresaglie non i nazifascisti, ma i partigiani, e non offrire più ai ribelli la propria simpatia e il proprio appoggio. La rappresaglia per i tedeschi era dunque scientemente finalizzata a influire, sul “morale delle bande e rivolgere contro di loro la reazione della popolazione civile”. Insomma per i tedeschi l’uso del terrore contro la popolazione doveva determinare l’odio dei civili contro i partigiani.

Ho insistito su questo punto perché fondamentale per comprendere che le stragi contro i civili non furono prodotte da gesti inconsulti di comandanti particolarmente crudeli e cinici, ma da direttive della catena di comando tedesca che le teorizzò e le pianificò  per piegare la resistenza armata che ormai, dalla primavera-estate del 1944,  aveva assunto una dimensione di movimento insurrezionale militarmente organizzato che non poteva più esser qualificato come “banditismo”, ma come un nemico che combatteva secondo i principi della guerriglia nelle retrovie del fronte per facilitare l’avanzata degli Alleati. Schreiber attribuisce a questo il motivo della “radicalizzazione” dello scontro con la guerriglia partigiana al punto di identificare la distruzione delle bande con il massacro del la popolazione civile.

Alla repressione dei partigiani e ai massacri di civili, in stretto rapporto con i comandi tedeschi, presero parte anche le forze di polizia, la GNR, 6 battaglioni antiguerriglia, la Legione autonoma di Ettore Muti e la Legione arditi di polizia. La documentazione disponibile a questo proposito è vasta e probante. Emerge da essa che il servilismo della GNR e del suo stato maggiore si spinse fino a emanare disposizioni altrettanto spietate di quelle della Wehrmacht  e delle SS. Ne cito una brevissima: “perseguitare il nemico finché è morto (…) agire con la massima durezza tanto contro i banditi quanto contro coloro che li aiutano”, e cioè i civili.

Da qui la sequenza sanguinosa di massacri nell’area dell’Appennino tosco-emiliano e lungo le vie di comunicazione. La loro protezione era  fondamentale anche per la Linea Gotica che si iniziò a costruire nel corso del 1944 lungo tutto il crinale appenninico, da Marina di Massa a Pesaro, per una lunghezza di 320 km. che tagliava l’Italia in due. Particolarmente fortificato era il terminale di Pesaro per una profondità di dieci  km. che facilitava l’accesso al nord, ultimo ostacolo prima delle grandi pianure da utilizzare anche come eventuale via di fuga.

Questi pochi elementi credo siano sufficienti per capire i meccanismi oggettivi, burocratici e militari, delle stragi. Ma c’è anche un dopo le stragi, altrettanto tragico: la mancata punizione dei responsabili e le sofferenze, non risarcite, che hanno segnato la vita e compromesso l’equilibrio psichico di migliaia di persone.

Oggi almeno sappiamo, con minimo margine di errore, quante sono state le stragi. Dobbiamo tutto questo  alla ricerca, presentata a settembre 2016 a Milano, nel Convegno  internazionale dedicato all’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia nel 1943-45. L’ “Atlante” è stato messo in rete (www.straginazifasciste.it) per dare la possibilità a tutti di accedere alle fonti che hanno consentito di schedare ben 5.517 episodi di strage e di dare, in quasi tutti i casi, un nome alle 23.330 vittime. La maggior parte delle stragi si concentra nell’Appennino tosco-emiliano, con poco meno della metà delle vittime complessive.

Un breve cenno ai dati relativi alle Marche: sono state 263 le stragi e 690 le vittime. La nostra provincia registra 64 stragi e 196 vittime, di cui 18 a Urbino. Un cantiere ancora aperto a cui continuano a lavorare  120 ricercatori coordinati dall’ INSMLI e dall’ANPI ai quali nel 2009 è stato affidato da una Commissione storica italo-tedesca il compito di costruire un dibattito scientifico per una nuova cultura della memoria in dimensione europea. Progetti come quello dell’ “Atlante” saranno avviati in altri paesi europei in cui sono avvenute stragi per mano dei nazisti e dei collaborazionisti locali, con la stessa metodologia e le stesse finalità.

E’ una vera e propria mappa dell’orrore quella prodotta dall’ “Atlante”, facilmente consultabile. I materiali di corredo alle schede sono correlati ad ogni episodio censito. Ogni scheda ricostruisce la dinamica degli eventi, accerta l’identità delle vittime e le risultanze processuali a carico dei responsabili dei massacri con i relativi riferimenti bibliografici. E’ inoltre fresco di stampa un report, a cura di Gianluca Fulvetti e Paolo Pezzino, quest’ultimo coordinatore scientifico dell’ “Atlante”, pubblicato da Il Mulino: Zone di guerra, geografie di sangue. L’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia (1943-1945).

Ultimo tema da affrontare, ma non ultimo per importanza, come è solito dire, è quello della rappresaglia e della memoria divisa, fra loro intrecciati, nel senso che è la prima a provocare la seconda. Vorrei qui proporre solo qualche elemento di riflessione perché il tema è molto complesso e sta diventando quasi un tema specialistico ed in parte interdisciplinare. Molti dalla metà degli anni novanta se ne sono occupati, soprattutto in area locale, ma pochi in maniera approfondita, tra questi i già ricordati Pezzino, Battini Gentile e Contini. Molto interessanti gli ampi  riferimenti contenuti nell’ormai famoso saggio di Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio critico sulla moralità nella Resistenza, del quale molti hanno sottolineato il titolo, ma sottovalutato il sottotitolo. Personalmente nutro dei dubbi che la Resistenza, almeno in senso tecnico, sia stata una guerra civile, ma ormai è diventato di senso comune, spesso in modo acritico, come fosse un dato incontestabile.

La strage di Fragheto, 31 persone assassinate (30 civili e un partigiano) durante un rastrellamento nell’alta Valmarecchia il venerdì santo del 7 aprile 1944, era stata per molto tempo dimenticata e riportata alla memoria dal documentario di Florestano Vancini del 1980 con tutto il suo carico di dolore e di polemiche insanabili. Poi di nuovo il silenzio, a parte alcune testimonianze sul filo della memoria, soprattutto da parte del parroco di Fragheto don Adolfo Bernardi, testimonianze spesso contraddittorie e imprecise per la carenza di riscontri documentali.

La svolta arriva all’inizio degli anni novanta a margine di un Convegno di studi su Casteldelci e le ricerche d’archivio effettuate da Lorenzo Valenti che rintracciò la documentazione processuale sui presunti responsabili italiani della strage di Fragheto e di quella del giorno successivo al “Ponte Otto Martiri” richiesta, secondo alcune testimonianze dal commissario prefettizio e segretario del fascio di Pennabilli, Flaminio Mainardi, un’esecuzione efferata eseguita dai fascisti del Battaglione “M” Venezia Giulia.

Nel 2007 Marco Renzi ha pubblicato un contributo interessante che ripropone una ricostruzione documentata e attendibile della strage e sul possibile ruolo che vi ebbero Flaminio Mainardi,  suo cugino Paolo, Bruno Lazzari, già podestà di Pennabilli, Arturo Emiliani, fascista fanatico e violento e agente dell’Ovra e Luigi Righi, milite della GNR (La strage di Fragheto (7 aprile 1944). Nuove verità, reticenze contraddizioni, Studi Montefeltrani 22/2007).

Si è ritornato a parlare della strage di Fragheto nel 2006 perché  una decina di fascicoli dell’“armadio della vergogna” consentirono la riapertura del processo a carico dei presunti responsabili tedeschi e italiani da parte della procura militare di La Spezia e poi di quella di Verona. Furono individuati nomi e gradi: 23 gli imputati, tutti ufficiali e sottoufficiali della 356° divisione di fanteria, tre dei quali rinviati a giudizio il 30 novembre 2011: il comandante della IV compagnia tenente Karl Schafer (100 anni), il sottotenente del I Plotone Ernst Plege (89 anni), Karl Weis (91 anni). Schafer morì prima della sentenza e gli altri due furono assolti nel febbraio 2013 per insufficienza di prove. Più lunga e tormentata la vicenda processuale che riguardò Flaminio Mainardi, Bruno Lazzari e Arturo Emiliani. Indagati dalla Corte d’Assise Sezione speciale della Corte d’Assise di Pesaro nel 1945, furono condannati per collaborazionismo nel 1947 per la strage di Fragheto e per l’eccidio di 7 partigiani e un civile, del ponte sul Senatello del giorno dopo, ma nel 1950 la Corte d’Assise di Perugia li assolse per intervenuta amnistia. Sentenza confermata nel 2014 dalla Procura militare di Verona, ma per insufficienza di prove.

Una mancanza di giustizia che si sarebbe evitata solo se si fosse intervenuti con tempestività e una diversa volontà politica. Certamente non ha giovato il fatto che la comunità, ripiegata su stessa, rimase troppo a lungo, per responsabilità delle istituzioni, isolata e quasi abbandonata al suo dolore. Nel processo del 1950 il Comune di Casteldelci non si costituì nemmeno parte civile, cosa che invece ha fatto nel procedimento riaperto nel 2006 dalla Procura militare di La Spezia e poi di Verona.

Malgrado la ricostruzione dei fatti porti ad escludere responsabilità dirette dei partigiani, il parroco Adolfo Bernardi li accusò di avere provocata la strage Essi, sosteneva, avevano nascosto un ferito in paese dopo lo scontro del giorno prima a Calanco e, cosa ancor più grave, non avevano difeso la popolazione dalle violenze della rappresaglia. Accuse respinte dai partigiani. Per questo la tragedia di Fragheto rimane una memoria divisa ancora a tanta distanza di tempo.

Mi chiedo: avrebbero potuto i partigiani difendere la popolazione? Erano di ritorno dallo scontro di Calanco, un po’ più a valle, e sette di loro erano stati catturati e fucilati. Tentavano di sfuggire a un grande rastrellamento condotto da circa mille tedeschi e 200 fascisti della GNR.

Sembra difficile immaginare che se anche avessero voluto sarebbero stati in grado di poterlo fare. Altrettanto improbabile che a scatenare la follia omicida della soldataglia possa essere stata la reazione di Guglielmo Gambetti che avrebbe ucciso due tedeschi sull’uscio della sua abitazione. Questo episodio è anche un po’ dubbio perché ricostruito molto tempo dopo sulla base di testimonianze di seconda mano e sul racconto di Candido Gabrielli, intervistato da Marco Renzi, che riferisce quanto visto dal genero di Gambetti, Bruno Novelli. Il parroco Bernardi accusò i partigiani anche per la fuga di un soldato tedesco che avrebbe trasmesso informazioni sul paese prima del rastrellamento.

Altri dicono che la sparatoria in paese non ebbe per protagonista il Gambetti ma un gruppo di partigiani guidati da un personaggio controverso come Guglielmo Cordonet malvisto dalla popolazione per aver operato delle vessazioni. Come si vede i dubbi su chi e che cosa abbia provocata la strage sono tanti. Tutto rimane nel campo delle ipotesi, e il condizionale  è d’obbligo, compreso un fatto imprevisto che abbia potuto scatenare la reazione tedesca. Personalmente mi sento di respingere il paradosso morale di accusare i partigiani per la strage.

L’unica cosa certa rimane la comprovata volontà stragista dei comandi tedeschi, pianificata e già sperimentata anche prima delle radicali disposizioni impartite due mesi dopo dal feldmaresciallo Kesserling e dal gen. von Zengen. Gli eccidi, compreso quello di Fragheto rispondono ad una logica che non ha nulla a che vedere con la fatalità della guerra perché sono il prodotto di un piano preciso applicato fin dall’inizio con folle lucidità. La stessa logica applicata dopo l’8 settembre nei confronti dei militari italiani al momento della loro resa e cattura. In questo caso, certamente, giocarono un ruolo anche la frustrazione e il complesso del tradimento e il  diffuso disprezzo, dai connotati razziali, nei confronti degli italiani che risaliva al 25 luglio, ma che era da lungo tempo presente nei commenti dei militari tedeschi e della pubblica opinione in Germania fin dagli anni Trenta e ancora prima:  gli italiani  erano considerati inaffidabili come alleati ed appartenenti ad una razza inferiore: uno “sklavenvolk”, un popolo schiavo, mentre i tedeschi erano un “herrenvolk”, un popolo dominatore. Forse per questo la rappresaglia per i nazisti non era altro che il compimento di quella “guerra totale” contro chiunque venisse percepito come un nemico del Terzo Reich.

Significativo a questo proposito è quanto accadde a Castiglione di Sicilia, in provincia di Catania, il 12 agosto 1943. Si faccia attenzione alle date: dopo il 25 luglio, ma prima dell’8 settembre, quando  Italia e Germania erano ancora formalmente alleate. Ci furono incidenti tra militari italiani e tedeschi in conseguenza dei quali soldati della Wehrmacht, scortati da un carro armato, entrarono nella piazza principale del paese sparando  sui civili presenti uccidendone 16 e ferendone 20.

 

Chiudo ricordando che il problema della rappresaglia contro i civili angustiò fin dall’inizio i comandi partigiani, soprattutto dopo l’eccidio delle Fosse Ardeatine. Ma prima di quel tragico evento, nel febbraio del 1944, il Comando  militare del CLNAI stilò un documento in cui si sosteneva di “evitare o limitare i motivi di rappresaglia tutte le volte che fosse possibile”. Ma precisava che “la preoccupazione della rappresaglia non deve costituire un impedimento insuperabile all’azione e tanto meno rappresentare una mascheratura della non capacità e non volontà di agire”. L’invito a non temere le rappresaglia era fin dall’inizio sostenuto e ricorrente sulla stampa azionista e comunista. Affermazioni di principio che tuttavia in molti casi, sebbene condivise, erano variamente interpretate.

L’argomento fondamentale era che  le rappresaglie dimostravano non tanto la forza quanto la debolezza del nemico contro il quale si sarebbero ritorte. Si sosteneva anche che  le rappresaglie dei nazifascisti  aumentassero l’odio popolare contro di loro e che i costi umani andavano messi tutti sul conto del nemico perché i responsabili delle rappresaglie erano i nazifascisti che le attuavano e non i partigiani che compivano le azioni che le provocavano.

Ma talvolta, e questo avviene anche a Fragheto, le popolazioni rimproveravano ai partigiani di averle compromesse e di non averle poi saputo difendere. Fra i partigiani c’era comunque chi si poneva il doloroso problema delle rappresaglie contro la popolazione imponendosi, per quanto possibile, una sorta di autocontrollo e di prudenza sospendendo per qualche tempo ogni azione.

Come a Fragheto, spesso erano i parroci, salvo eccezioni, a prendere posizione contro i partigiani accusati di provocare le rappresaglie nei confronti dei civili (Garfagnana, Bellunese, Lomellina). Pavone cita, per esempio, tra i tanti, quanto scriveva il vescovo di Monferrato: “Di regola i partigiani, fatto il loro colpo, fuggivano” mentre “La popolazione, assolutamente innocente, restava e pagava”. Commenta ragionevolmente Pavone che qui si è in presenza di uno slittamento dalle preoccupazioni etico-religiose verso una presa di posizione politica che riproponeva ancora una volta la polemica, non componibile, di azionisti e comunisti contro l’attesismo delle forze conservatrici e moderate del CLN.

Le rappresaglie nazifasciste costituirono fin dall’immediato dopoguerra il cavallo di battaglia della pubblicistica antipartigiana che  ha diffuso l’idea di un paese quasi più funestato che liberato con il contributo della lotta partigiana fatta da una minoranza che si fece carico  dei problemi dell’intero Paese. Nel 1964 Luigi Meneghello ne I piccoli maestri, in cui racconta la sua esperienza di giovane partigiano sull’Altopiano di Asiago, bollava questo atteggiamento partorito da coloro che definiva i “veri estremisti della moderazione” i “prudenti per dono di natura”, che rinunciavano “alla gioia di lottare per la giustizia e la libertà, accontentandosi di goderne i comodi conquistati da altri”.

Credo, per concludere,  che ricordare la strage di Fragheto, come tutte le altre stragi, sia un dovere morale, come sia  un dovere per gli studiosi proseguire nella ricerca, un modo concreto per alimentare la memoria e rispettare le vittime.  (e.t.)

 

 

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