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La catena del Gran Sasso come la montagna di Moby Dick

La catena del Gran Sasso come la montagna di Moby Dick

Per quanto sia impossibile che una massa di neve possa avere una coscienza, non riusciamo a toglierci dalla testa che sia qualcosa di vivo e cattivo: altrimenti come spiegarlo?

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di TONINO ARMATA

LA VALANGA È COME IL DESTINO, INCOMPRENSIBILE. Non c’è unità di misura che possa contenerla. Non c’è immagine che possa definirla. È sempre fuori fuoco. Come Melville capì scrivendo il suo capolavoro non c’è modo di descrivere la balena se non nelle sue singole parti. Le pinne, la coda, le fauci. Moby Dick non esiste, è il racconto in frantumi del povero Ismaele. Lo stesso è per la valanga. La valanga mentre si scaglia a valle schiantando alberi, sgretolando rocce e divorando animali ed esseri umani, è un mistero insondabile.

Quindi non esiste. La valanga è ciò che resta. Un nuovo improvviso panorama fra cime che d’ora in avanti vedremo con uno sguardo diverso. Con occhi che hanno perso la magia.

È come se la valanga ci privasse dell’ultimo elemento fiabesco delle nostre vite da adulti: il fascino delle vette. La sua violenza strappa l’illusione di natura come luogo di consolazione e ci costringe a osservarla mettendo a nudo una verità tanto sgradevole che ne siamo respinti. E non osiamo pronunciare.

La valanga è ciò che resta. Quando le cose vanno per il meglio è il sentiero tracciato dalle impronte dei soccorritori mescolate a quelle dei cani. È il frastuono delle turbine dell’elicottero con a bordo l’alpinista tratto in salvo. Accecato dal terrore, congelato, ma ancora vivo. Il palpito del suo cuore. Quando questo non accade la valanga è la disperata ricerca di un perché, di un motivo che spieghi ai famigliari affranti quel pezzo di anima che non batterà mai più. Per cercare di consolarli usiamo un vocabolo inesistente: fatalità.

Nessuno, fra quelli che sono sopravvissuti, riesce a trovare le parole adatte per descrivere ciò che gli è piombato addosso. Raccontano del terrore provato, dell’urto preceduto da un tuono. Di preghiere mozzate a metà. Come in un quadro cubista offrono frammenti che a malapena permettono di intravedere ciò che hanno vissuto. Come Ismaele, non riescono a descrivere ciò che vorrebbero come vorrebbero. Perché la valanga non è solo neve, ghiaccio e detriti. È un insieme di destini che s’incrociano. Il destino dell’alpinista estratto dalla neve, del compagno che ha chiesto aiuto, quello dei soccorritori arrivati con l’elicottero. E via così. Destini, al plurale, perché la valanga è legione ed è proprio questo a indurre reverenza di fronte al suo mistero.

Per quanto ai nostri occhi sia impossibile che una massa di neve possa avere una coscienza, per quanto sappiamo che la parola destino altro non è che una rassicurante illusione, quando vediamo immagini come quelle che arrivano dal Gran Sasso, non riusciamo a toglierci dalla testa che la valanga è qualcosa di vivo e cattivo. Che sia dotata di una feroce intelligenza e di una non meno crudele volontà il cui scopo è quello di ghermire singoli destini e farli convergere in un determinato punto, in un maledetto determinato momento non soltanto per ucciderli, ma per annientarli in qualcosa di diverso: una storia che riempie di sgomento.

Come spiegare altrimenti quanto accaduto ai trentacinque (alcuni dei quali marchigiani) dell’Hotel Rigopiano? Non possiamo.

Perché la valanga è quello che resta. Le prime istantanee del suo passaggio già ci sono. La hall invasa da una lingua bianca, il tetto sfondato dalla neve su cui spiccano le divise dei vigili del fuoco che scavano e spostano detriti alla ricerca di un po’ di speranza. Dei trentacinque dell’hotel, donne, uomini, bambini presto conosceremo tutto o quasi. I loro nomi, i loro volti. Scopriremo quale lavoro svolgevano, quali scuole frequentavano. Il motivo per cui si trovavano in Abruzzo già lo conosciamo e saperlo rende tutto ancora più tragico, quasi beffardo. Erano in vacanza. Possiamo anche immaginare cosa ci riserveranno i prossimi giorni. Ci saranno pianti, preghiere, promesse. Ma alla fine dimenticheremo quei volti. E sarà giusto così. Resteranno appannaggio di chi sarà costretto a versare lacrime ancora per molto tempo. Il dolore vero è intimo e non potrà mai essere collettivo. Quello che ci sarà difficile dimenticare e che ci accompagnerà a lungo sarà il fremito di orrore, antico, che appartiene al nostro sangue più che al nostro intelletto, quando sentiremo ancora pronunciare quella parola. La parola che è ciò che resta.

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