Ecco dov’erano nelle Marche i campi di concentramento
Ecco dov’erano nelle Marche i campi di concentramento
di ENZO CARLI
VENEZIA – Daniele Duca ha inaugurato presso l’Ikona Gallery di Venezia la mostra fotografica :”Una regione e i suoi campi”, una mostra fotografica sui luoghi di concentramento , internamento e deportazione nelle Marche (1940-1944). Il libro, edito da Ikona Venezia e curato da Giuseppe Morgese e Daniele Duca, con la prefazione di Riccardo Segni e interventi critici di Marco Severini e Enzo Carli sarà presentato a Venezia, Museo ebraico, in occasione della giornata della Memoria, il 27 gennaio alle ore 17. Per maggiori info clicca qui
“..Perché dovrei essere fuori dai tuoi pensieri e dalla tua mente, solo perché sono fuori dalla tua vista? Non sono lontano, sono dall’altra parte, proprio dietro l’angolo. Rassicurati, va tutto bene. Ritroverai il mio cuore, ne ritroverai la tenerezza purificata. Asciuga le tue lacrime e non piangere, se mi ami: il tuo sorriso è la mia pace. (Herry Scott Holland)
Immagini per ricordare
Le immagini di Daniele Duca percepiscono la realtà così che si stabilisce, uno sguardo nello spazio e nel tempo delle sue foto-grafie; utilizza il bianco e nero e le tonalità del ricordo, esalta il dettaglio, come ideatore, regista e narratore di una recente e tragica storia, per non dimenticare.
Le immagini di Duca sono in realtà corrispondenze per una costruzione metaforica di valore;attribuzioni di senso come incitamento semiotico, come sollecitazione storica, Si traduce in una costruzione di un apparato significante che abbatte la funzione d’uso della rappresentazione, per significati interiori. Lo stessa coscienza quando Duca opera un transfert sull’organico, con l’identica necessità di congelare quello che la fotografia riesce a mantenere, per incernierarne il vissuto, il senso e nello stesso tempo perpetuarne il ricordo utilizzando nella rappresentazione forme originali e un il piano ripresa che ne evidenzia graficamente i rilievi e i tratti significanti.
L’ l’interesse è fortemente subordinato al coinvolgimento emotivo e quindi lo stile, pur asciutto ed essenziale, si sviluppa con una sorta di un’introspezione segreta sul soggetto che ne mette a nudo il forte rapporto personale.
Con risultati differenti e con effetti singolari, la sua curiosità l’ha spinto ad indagare sulla materia, agitata dal decise gradazioni timbriche ed infine come se volesse attribuire a questa esperienza, il ruolo di collante e di coesione nel percorso di pungolo visivo.
Si affida alla lettura del paesaggio , scarno, implacabile; estrae con le immagini impronte senza età e tratti impercettibili ai quali consegna i resti e le tracce della memoria; elzeviri tipografici, texture e segni, particolari amplificati delle trame e dei percorsi dei luoghi, come corpi inanimati che continuano la testimonianza di un tempo drammatico e di una storia dolorosa, incredibile referenza di questo spazio e di un luogo che ci appartiene e che è attraversato da un flusso cognitivo sensoriale che Daniele Duca interpreta come presa di coscienza della metamorfosi della realtà e che, attraverso la sua stessa ricostruzione, carica il distacco nel ricordo nella poesia dell’esistenza, nelle luci e nelle ombre dell’immagine fotografica.
Le aspirazioni ed i bisogni, pur nelle loro differenziazioni, tradotti in immagine, determinano la propria adesione diversi sistemi di riferimento e di significazione. Il mutamento in corso non tiene più conto delle ideologie e soprattutto dei velleitarismi connessi all’implicazione arte/sociale. Semmai si nota un ripristino di alcuni valori considerati “tradizionali”, un recupero dell’estetica colta . Duca come creativo lavora in questa direzione, disponibile ad esercitare quella che è una delle funzioni principali, la conoscenza, con cui rivendicare la propria centralità del sentimento che dalla concreta rappresentazione prende il pretesto per una rappresentazione simbolica e fantastica, che ricarica di valore il significato anche attraverso l’ elaborazione di allusive forme ed allegorie.
L’impianto figurativo tanto è più dettagliato ed essenziale, tanto più si isola dal contesto per prestarsi a nuove interpretazioni che giocano di rimbalzo sulle nuove servitù imposte dai ritmi frenetici della proliferazioni di immagini. L’operazione che avvia il processo di fissazione dell’immagine, coinvolge l’operatore in un corto circuito tautologico dove sociale si schiude nelle proprie tragiche certezze.
Come ho già avuto occasione di scrivere la fotografia ha la funzione di aiutarci a superare l’angoscia provocata dal fluire del tempo, sia come sostituzione di qualcosa che il tempo annulla, sia registrando le pause della memoria, evocando momenti e situazioni ormai perse che suscitano l’illusione di vincere il potere distruttivo del tempo. Ma è anche percezione e certamente analogia del reale e quindi come succedanea della realtà fornisce il punto sulla visione sociale sulle angosce, e sui mali di questo mondo; come una fotografia a terapeutica, un’ auto-indagine nella consapevolezza della fotografia, come paradosso.
Non ci confonda questo mutamento stilistico di Duca come fotografo che inquadra a tutto campo, una ripresa pregnante di realismo sociale , fuori dalla sua oggettivazione con un maturo tecnicismo, forma asciutta , tono realistico, descrittivo, attento alla composizione dei particolari e dei particolari della composizione; immagini che trasformano la realtà in emozioni, sensazioni e nella rappresentazione degli spazi, in pentagrammi sospesi della memoria, immagini per ricordare. Fotografare è come scrivere: il paesaggio è pieno di segni, di simboli, di ferite, di cose nascoste. Il segno chiarisce alcune cose mentre per altre rimane una macchia. Ci troviamo ognuno di fianco all’altro a osservare queste immagini ma non possiamo cancellare le differenze; la nostra vibrazione è coerente, selettiva, determinata. Non chiediamoci di rinnegare, non chiediamoci di far finta di niente; lo sguardo ci richiede verità e il dovere di cambiare questa realtà.
Microcosmi informali, paesaggi desolati e sospetti, lampade come steli che trasudano da una superficie smussata e misteriosa, statue premonitrici e porte sbarrate, portoni preclusi, rocche severe, case e ville abbandonate o solo tracce di quello che è stato, impiantiti, anamnesi di opifici, mura oblunghe, paesaggi farseschi, teatrini del ricordo, cementifici dell’anima, capriate fatiscenti, officine della tragedia; su tutto il filo spinato del reticolato che svetta e taglia il cielo, plumbeo minaccioso , testimone dell’incredibile.
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